Tre anni in luogo di verità

Caro Arthur,

sono ormai tre anni che sei, come usava definirlo mia madre, “in luogo di verità”.

Quest’anno c’è anche lei, è venuta a mancare poco meno di un mese fa, in un modo che mi sento un pugno dritto al cuore ogni volta che ci penso.

Quando è morta però, dopo tanto dolore, ha finalmente riassunto la sua espressione serena, finalmente è tornata ad essere lei.

E’ strano il rapporto che si ha con la vita e con la morte, a volte sembra che le persone nascano nel momento in cui ci vengono a mancare, o perché è il momento in cui ci fermiamo a pensare, o perché ci rendiamo conto di quello che ci davano e che non c’è più, o perché magari siamo costretti a mettere mani nelle loro cose, e quelle piccole, – e spesso povere – cose trascurate, ci restituiscono più spesso di quanto non crediamo l’immagine di una persona nuova, che credevamo di conoscere e invece ci sorprende.

Che con mia madre non ci fosse nessun legame affettivo probabilmente te l’avrò detto mille molte, ma pare sia qualcosa difficile da elaborare perché tutti, tutti, mi sono venuti a fare le condoglianze più o meno dicendo che capivano il mio dolore, il che significa che non l’avevano capito prima, che non mi avevano capito prima, perché io per trent’anni ho pianto la mancanza di una madre, e per altri trenta ho vissuto rassegnata.

Non ho sofferto per la sua morte, per lei è stata una liberazione che da tempo implorava, e per me… sai come si dice, non si può perdere ciò che non si  è mai avuto.

Quando ero bambina, adolescente, sai che pensavo? Ricordi Arthur quella canzone del telefono azzurro, “quando sarò grande mi voglio vendicare”? Mi sono imbibita di rabbia e di rancore, e aspettavo solo che fosse vecchia e avesse bisogno per poterla abbandonare: suona terribile vero? Sì, forse lo è, ma fatto sta che non l’ho fatto e le sono stata vicino fino alla fine, l’ho imboccata, sollevata, medicata, ascoltata, e forse sono stata solo io a capire quello che stava passando, mentre mia sorella, figlia ben più devota e legata di me, voleva ciecamente attribuire il suo stato solo a un momento di depressione da cui bisognava farla riprendere.

Perché ti dico tutto questo? Perché ti vedo lassù, sorridente, sornione, paziente, pronto all’ascolto di tutto quello che da quaggiù ti diciamo… sai una cosa Artù?

Quando stavo da mia madre, ultimamente, avrei voluto tanto chiederle se si era mai pentita di tutto quello che mi aveva fatto, se l’aveva capito, se aveva avuto un qualche ripensamento… ma non mi andava di risentire le sue due risposte standard, quelle degli anni bui, quando era giovane e in forze, che erano 1) non è vero niente 2) è vero e pure troppo poco rispetto a quello che avresti meritato.

E così me le sono ringoiate quelle domande, l’ho presa sottobraccio e ho camminato con lei finché ha potuto, le ho portato il cibo più buono, mi sono seduta vicino a lei a parlarle un po’ di me, sperando così che potesse fare un po’ più parte della mia vita, capire le mie giornate, le mie difficotà. Me le sono ingoiate quelle domande, e ancora non so se ho fatto bene o no, ma tanto ormai…

Artù, che cos’è la vita? Tu che sei in luogo di verità e noi di bugia, lo trovi il modo per dircelo? E’ vero che questa vita è solo una piccola parentesi terrena di una vita più grande, più vera, più cosciente? E che vorrò, che vorrò quando sarà il mio turno? Lo saprò? Lo capirò? Lo vedrò svolazzando sul soffitto come in tanti dicono accada?

Dalla religione sono sempre più lontana, ma dalla fede no, a quella sono sempre più vicina, troppi segni mi dicono che siamo qualcosa di più delle spoglie che vestiamo qui.

Al cimitero sono stata attratta da una tomba, dall’aria piuttosto abbandonata Mi avvicino e mi si gela il sangue, in quei pochi dati di una persona sconosciuta un messaggio che sarebbe troppo facile attribuire alla coincidenza, e per questo dopo il primo attimo di smarrimento ho avuto un senso di consolazione e di conforto: sì, siamo di più, siamo di più di questo corpo e di questa vita, non siamo finiti qua, ci rivedremo.

Ci rivedremo.

Un serial spaller

Oggi non è nessun anniversario, ma ti scrivo lo stesso perché casualmente, a causa di un commento in spam, sono andata a finire su questo articolo, “E di nuovo anniversario”: l’ho letto tutto, e mi ha fatto effetto questo tuffo nel passato: ah, come sono diverse le cose quando si rivedono a distanza!

Mi ha fatto effetto rileggere quanto fossi arrabbiata, ma poi è sopraggiunta la tenerezza leggendo tutti commenti (81!) perché tanto, gratta gratta, alla fine l’affetto è venuto fuori e si leggeva tra le righe, da una parte e dall’altra.

Ho ritenuto vari commenti degni di nota, ma tra tutti uno mi ha fatto sorridere, quello in cui un commentatore coniò per te il termine “serial spaller”, che dai, secondo me è azzeccatissimo e al contempo affettuoso (che poi, ricordi quando misi le tue spalle come testata del blog?).

Un altro commento però mi ha colpito in pieno petto, quello di una nostra comune amica, che pure lei piena di risentimento dichiarava che mai avrebbe messo una pietra sopra a come era stata trattata. Nei tempi a seguire,  io avrei trattato una persona in modo analogo e, a rileggere le sue parole, a rileggere come si è sentita… beh, tornando indietro non lo farei.

Non che avessi torto, ma la reazione… pubblica, e nei confronti di una donna timida, così schiva, che non ha mai voluto neanche gli auguri in pubblico… beh Arthur, ho sbagliato.

La verità è che il mio avatar non è casuale, e ho pure tante belle qualità ma, quando mi arrabbio, diciamocelo, Hulk “me spiccia casa”.

Certo, la perdita dei nostri cari, la coscienza di quanto tutto al mondo sia effimero e precario, la crisi che stiamo vivendo e che grazie al cielo ti sei risparmiato (quante lacrime davanti ai camion dell’esercito che trasportavano dalla tua Bergamo centinaia di bare in assoluta solitudine!), ricontestualizza tutto.

Davvero, la vita è un soffio, non dovremmo mai dimenticarlo e la ricetta della vita, spesso breve e fuori da ogni possibilità di controllo, dovrebbe essere un mondo di solidarietà, comprensione, sostegno reciproco: il paradiso e l’inferno sono dentro di noi.

L’Aquilone…

E già, l’aquilone… non c’è nulla di duraturo o d’immortale, se non nei pensieri di chi non ha voglia di dimenticare; certo, alle volte si vive solo per un alito, ma quel che resta poi è molto di più e non parlo solo di ricordi che nel tempo sbiadiscono se solo non si coccolano con cura, parlo di quell’immagine che resta impressa nella memoria, indelebile, l’immagine di un viso, di un sorriso, di gesti o di mani che si toccano, l’immagine che non conosce il trascorrere del tempo e che da sola racconta più di qualsiasi altra cosa.

L’aquilone… pensandoci (…), non ho mai corso con in mano un aquilone. Ne ha visti tanti – come questa estate – di mille colori e forme, volare leggeri nell’azzurro del cielo, gli occhi all’insù senza mai perdere un battito di quelle ali, la morbida discesa che dopo una virata improvvisa, riprende forza per poi risalire con più vigore, fiero di esserci ancora e di poterlo dire.

Quel filo che lo lega è come il tempo, che è in ogni minuto che passa, in ogni sensazione che vive, in ogni angolo dei desideri, in ogni frammento delle emozioni, è tutte le volte che si ha voglia di pensare a come viverle ma, anche solo pensarle, è tanto.

 

Oops!!!

Penso che la cosa più difficile sia entrare nella vita delle persone, che non vuol dire conoscerle, ma farne interamente parte, dividere con loro tutto ciò che c’era “prima”, per poi farlo diventare “dopo”.

Così, un pensiero, giusto per dire!

*** Beh, di là – nel blog fotografico – ho riproposto una vecchia foto e qui, insomma, un vecchio pensiero con un mio “graffio” – come l’ha chiamato il mio caro nipotino Dino – Il tempo, mannaggia, il tempo!

Un martedì qualunque.

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Forse una delle cose più belle a mio parere, è riuscire a guardare gli altri con quella curiosità che ha dentro di sé un valore aggiunto, l’idea che a questo mondo non siamo soli e che tutto ciò che ci circonda, proprio perché ne facciamo parte, ci appartiene, come se fossimo, in un certo senso, una grande famiglia.

Se mai si riuscisse a portare a compimento una tale teoria, il mondo sarebbe meno malato, immagino.

Non è l’utopia del vogliamoci tutti bene, baci e abbracci senza distinzione o paure di sorta, del dejà-vù o della banalità di un martedì qualunque, l’indifferenza che sa di apatia nasce prima ancora dentro di noi, ed è poi solitudine, lì si sviluppa, e nel renderci complici di noi stessi, ci toglie il piacere di guardare al di là di quel muro che è fatto solo di ombre.

E’ ciò che ho pensato oggi in un lampo, mentre mangiavo seduto ai tavolini di un centro commerciale; accanto a me ad un certo punto è arrivato un ragazzo di circa 25 anni, ha aperto lo zaino, tirato fuori un contenitore di plastica con dentro della pasta al sugo, un tovagliolo e una forchetta e dopo aver fatto scaldare il tutto nel bar vicino, si è seduto a mangiare, in una mano la forchetta e nell’altra lo smartphone.

In tutto questo tempo il suo sguardo non si è mai “scontrato” con quello del vicino e men che meno ha vagato in giro distrattamente. Un’anima persa (…) in mezzo ad un mondo chiassoso e variopinto.

Dopo si è alzato e così com’era venuto se ne è andato, sguardo chino solo su se stesso.

Niente di anormale probabilmente.

Firenze, la mostra con Chagall…

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La Crocifissione bianca di Chagall

Se non fosse al tempo stesso ridicola e farsesca la cosa, potrei dire tranquillamente che mi veniva da ridere leggendo oggi su Repubblica la notizia con un titolo alquanto eloquente “Firenze, la mostra con Chagall e Van Gogh vietata ai bambini della scuola: “Urta i non cattolici”. Ma non è così, purtroppo, proprio perché da ridere c’è ben poco, se si considera che a volte la voglia di protagonismo mista a ignoranza ha degli effetti devastanti.

E veniamo alla cronaca.

La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l’occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l’Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell’istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell’esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione.

La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra”  (dall’articolo di Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi su Repubblica del 12 novembre 2015 )

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Capire e farsi capire.

Uhmmm

Ieri ho avuto una conversazione che mi ha fatto riflettere molto, in contrapposizione al mio “camminare insieme”, cioè a quella voglia di sentirmi sempre e comunque partecipe della mia vita anche insieme agli altri, mi si poneva l’enigma dell’uomo che invece, malgrado cerchi o si illuda di non essere da solo, viva la sua vita in solitudine, perché, per esempio, nei momenti più bui, quale può essere la morte, malgrado abbia vicino a sé chi gli vuol bene, l’affronta comunque da solo.

E’ vero da un lato, ma non del tutto secondo me e la risposta sta in quel bisogno che ognuno di noi ha, malgrado viva la sua solitudine, di sentirsi parte di qualcosa, di qualcuno.

E’ forse un attimo, impercettibile, una sensazione che comunque non lascia spazio ad equivoci; il calore di una mano, o lo sguardo di chi ti ama vuol dire che non c’è l’abbandono, vuol dire che malgrado tutto, non si è da soli ad affrontare l’imponderabile.

La condivisione è un atto di fiducia, non importa se avviene subito o un po’ per volta, ma perché ci sia deve esserci la volontà di capire e di farsi capire, proprio perché noi non siamo un’isola felice e solitaria, ma qualcosa che fa parte di qualcosa più grande, l’insieme di tutti noi. Nessuna realtà può essere scardinata o violata, indubbiamente, ma per fare parte di altre realtà, deve esserci uno sforzo comune, altrimenti è tempo perso.

Così, giusto per dire.

Buon 25 Aprile!

Esprimersi e comunicare.

Mani

Leggevo l’altro giorno un bel post di Manu e tra un commento e l’altro, a proposito di comunicazione, le dicevo che secondo me non si può comunicare senza esprimersi e viceversa, mentre invece lei riteneva fossero due aspetti opposti. E a supporto della sua teoria, mi portava alcuni esempi: i blog senza commenti comunicano o si esprimono? Io credo entrambe le cose. I libri, i film? Quanto un regista vuole, alla fine, comunicare? E il messaggio che ci arriva, corrisponde alle intenzioni dell’autore?

Innanzitutto parto dal presupposto che in qualsiasi manifestazione l’espressione è sinonimo di comunicazione, nel senso che ci si esprime inizialmente per soddisfare un bisogno interiore, nel quotidiano un bambino che piange per esempio.

Nell’arte, l’intuizione creativa nasce da un’emozione forte e qualunque sia il mezzo per esprimerla, comunica comunque un messaggio, anche se non necessariamente corrispondente a quello che l’artista aveva pensato, sognato, sentito.
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‘nnagg… !!!

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Stamattina ricevo un sms abbastanza simpatico, dove c’era scritto:

“Maurè, ci vediamo da Sora Gianna alle 19.30, in via dei Carbonari al numero 32”

“???” rispondo io

“Venerdì” contro risponde il mittente del messaggio.

“Scusa, forse hai sbagliato numero” a quel punto gli scrivo.

E lui imperterrito: “Maurè, so’ Giulio!”

Ed io imperterrito: “Giulio, so’ Arthur!”

Per cui a questo punto non contento mi chiama al telefono dove, con un sorriso sulle labbra, gli ridico che aveva sbagliato numero. Probabilmente non ne era convinto.

‘nnagg… !!!

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Virtuale o reale?

Interno

“Bloggare stanca”, dice Diemme nel suo ultimo post, “anche i tuoi pensieri, oramai, dopo anni, li hai espressi tutti, e allora di che parlare ancora, della cronaca della tua vita? “

E’ molto vero da un lato, la gioia dei primi post, la voglia di sperimentarsi anche per vedere “l’effetto che fa” dopo un po’ si esaurisce, subentra la solita routine che inevitabilmente smorza qualsiasi entusiasmo, ma come in tutte le cose è fondamentale rinnovarsi, direi indispensabile, ridà la carica, infatti, non sono d’accordo che dopo un po’ non si ha più nulla da dire, anzi, pur avendoli espressi tutti i pensieri – ma forse è più corretto dire tanti pensieri – c’è sempre la possibilità di rivederli, per ridiscuterli, una parola tira l’altra e chissà quanti pensieri nuovi possono nascere nel frattempo, perché no? Continua a leggere “Virtuale o reale?”