Ri_pensandoci…

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E sì, qui lo dico e qui (non) lo nego, a costo di farlo sapere al mondo intero, se avessi avuto un figlio, avrei voluto una femminuccia.

Oggi ero al mio solito centro commerciale mangiando il mio solito piatto di tagliatelle e davanti a me, nell’altro tavolo, c’era un ragazzo di circa trent’anni, con barba, baschetto da intellettuale con la faccia simpatica che mangiava con la sua piccola, un batuffolino di circa tre anni con gli occhiali, capelli lunghi, maglietta bianca e un visino con due occhetti furbi furbi, che non vi dico. Non stava ferma un attimo, gironzolava intorno alla sedia del padre che, amorevolmente, appena lei finiva il suo piccolo panino, gliene dava un altro.

‘nnagg… com’erano belli!

Inutile dire che quando vedo scene del genere m’intenerisco. Vedere quel trottolino appiccicata addosso al padre mi fa pensare chissà quali momenti non vissuti ahimè, ma che forse mi mancano tanto proprio per questo.

Certo, c’è il rovescio della medaglia da prendere in considerazione: nell’altro tavolo c’erano due ragazze sedute con due ragazzi, adolescenti, che, tra una patatina e l’altra se la ridevano di gusto. Ebbene, pensare che dopo l’avrei dovuta dividere con quel tipo foruncoloso e con la voce baritonale, che mangiava anche con la bocca aperta e rideva come un allocco, beh, la cosa non è che mi facesse tanto piacere, anzi, dippiù, dippiù. Tra i due, lei era senz’altro la più sicura, probabilmente un modo per misurarsi, ma questa è un’altra storia

Chissà, magari sarei stato un papà accomodante, oppure, preso da sacro furore Siculo, un papà geloso e ossessivo; boh, fatto sta che a ripensarci, una femminuccia l’avrei voluta davvero, forse anche un po’ smorfiosetta, ma quel tanto che basta, giusto per stringerla un po’ tra una coccola e l’altra.

Evvabè, ‘giorno, ‘sera, ‘notte, ‘nnagg…!!!

* Come eravamo…

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Come eravamo…

L’altra sera in una trasmissione su Rai1 c’erano alcuni ragazzini che cantavano delle canzoni e a sentirli, bravissimi, mi chiedevo cosa sarebbe stato di loro da grandi. E allora, mi è venuta in mente la mia storia, anzi devo dire l’intrecciarsi di storie che in qualche modo hanno caratterizzato la mia vita, i desideri, i sogni, le aspettative, magari anche soltanto abbozzate.

Ricordo che da piccolo mio nonno voleva che facessi il cantante, e infatti, organizzava le occasioni perché potessi dimostrare la mia bravura. Come poteva essere diversamente, visto che in famiglia eravamo tutti un po’ canterini; mia nonna con una bella voce da soprano, mio zio un tenore, serate durante le feste passate con mia madre al pianoforte e mio padre a cantare con i miei zii e con gli amici. In effetti, mi capita tuttora di farlo con gli amici accompagnandomi con la chitarra, cantando canzoni, passando serate, ma tutto son diventato tranne che cantante.

Che altro avrei voluto fare, boh, non mi ricordo in effetti, so che fin da piccolo giocavo con i colori, tant’è che i miei genitori a un certo punto tornando da un viaggio, mi regalarono una bellissima scatola di colori a olio tutta di legno che ho tuttora ed io a imbrattare tele su tele. Beh, avrei potuto fare il pittore, e mi ci vedevo anche chiuso in una soffitta con grandi vetrate, una sigaretta dopo l’altra, la barba lunga, la faccia scavata dalla sofferenza, e in effetti, ho anche passato un momento della mia vita a dipingere come un matto, la mia casa è piena di quadri, di disegni, di opere incompiute, ma tutto son diventato tranne che pittore.

Un’altra cosa che mi piaceva fare, era mettermi seduto nella mia poltrona preferita a occhi chiusi e immaginare di scrivere delle storie. Personaggi, intrecci complicati, persino dialoghi, tutto scorreva nella mia mente come in un film, dove ero sceneggiatore, regista e interprete, ma tutto son diventato tranne che scrittore.

E poi, e poi mi piaceva sognare ad occhi aperti, ma qualcuno mi aveva detto che sognare non si poteva fare come lavoro. Ma io niente, continuavo a farlo incurante di ciò che gli altri mi dicevano. In effetti, tutto son diventato nel frattempo, e intanto, non ho mai smesso di sognare.

E voi, voi come eravate?

Scolpire la luce!

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Come già accennato nel mio post precedente, non solo mare o bella compagnia questa estate, ma anche un po’ di arte.

Confesso però di sentirmi confuso di fronte all’arte moderna, qualunque sia la sua matrice. Quadri, sculture, opere che affondano la loro esistenza in un ripetersi monotono alla ricerca di un dejà-vu spesso sconfortante, che probabilmente rincorre la novità, senza per questo trovarla.

Le istallazioni, grandi o piccole che siano, sono diventate un’abitudine, una moda e in tante di queste, il nulla è di casa, o almeno questa è la mia impressione. D’altra parte un’opera, se da sola non si esprime, forse che insieme a delle altre acquista una dimensione diversa?

Ecco da cosa nasce la mia confusione, nel non sentirmi coinvolto, quella parte emozionale di me che a gran voce chiede di voler partecipare, si sente tagliata fuori e così i miei occhi scrutano senza curiosità opere una accanto all’altra, come se fossero inutili oggetti riposti su di uno scaffale di un supermercato.

Ma capita anche di leggere recensioni di artisti tra l’altro quotati che pur di “giustificare” delle scelte artistiche a dir poco discutibili, secondo me, esprimono l’inverosimile; e così un gioco di specchi sapientemente collocati in un’istallazione dentro le sale di un palazzo antico, è l’inizio, l’invito di un susseguirsi d’immagini che dovrebbero portarci a chissà quali considerazioni psicosocialfilosofiche.

Maddai!!! Continua a leggere “Scolpire la luce!”

Un sorriso! Aspettami che arrivo.

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La scena sempre la stessa. Passano gli anni, cambiano le abitudini, la tecnologia imperversa ma le speranze e gli approcci in amore non cambiano mai.

Oggi – solita pausa pranzo, solito centro commerciale – ero a mangiare qualcosa e, tanto per non cambiare abitudine (…), tra un boccone e l’altro mi guardavo intorno. Accanto al mio tavolo c’erano tre ragazze e due ragazzi; loro, le ragazze, molto carine, spigliate, loro, i due ragazzi, insomma, che dire, due bortolotti senza arte ne parte, giusto per parafrasare un famoso detto che non passa mai di moda.

E così, battute e risate, mani che si sfiorano, occhi ammiccanti come per dire… sì, sì, mi piaci, non te ne sei accorto?

Loro, le ragazze, lanciatisime, loro, i ragazzi, beh, come sopra.

Guardandoli mi venivano in mente quei tempi fatti di speranze che cambiavano nell’arco di un mattino. Allora eravamo un po’ meno sicuri forse, ma la voglia di provare a confrontarsi uguale, uguale. Emozioni allo stato puro che, proprio perché tali, erano in balia di se stesse.

Che bello!

Ho continuato a guardarli, augurandomi in cuor mio che quei sorrisi e quella spensieratezza riuscisse a rimanere così com’era. Per loro, una speranza, dove nessuno si sveglia al mattino con una pistola o un macete in mano.

E magari, dopo, uno di loro che come me guarda sorridendo con tenerezza altre risate, altre mani che si sfiorano, occhi ammiccanti come per dire… sì, sì, mi piaci, non te ne sei accorto?

Martina Buzio: “Come è il panorama?”

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E’ la prima volta che mi cimento nella recensione di un romanzo e, lo faccio con un po’ di emozione. Il libro è di una cara amica, Martina, che tanti di voi conoscono, compagna di una bellissima avventura, quella di “The Best Magazine”.

“Come è il panorama?”

Il suo primo romanzo, un esordio fatto in punta di piedi che nessuno si aspettava; scritto l’estate scorsa d’impeto, come se quelle parole fossero state da fin troppo tempo chiuse in un cantuccio e la voglia di spuntar fuori, un bisogno che purifica, un sollievo per l’anima.

Non voglio entrare nel merito del racconto, toccante per certi versi, forse autobiografico o forse no, vorrei parlare piuttosto del suo modo inconfondibile di raccontare con leggerezza, che già conoscevo e che da sempre ho ammirato, parole semplici che l’autrice ci regala in pagine belle che ci accompagnano dalla prima all’ultima, in un battito di ali.

Leggo e così l’ascolto.

E’ un po’ come star lì seduti in un comodo divano uno accanto all’altro, un locale accogliente con le sue luci soffuse e l’ombra tenue e profonda, lei che senza esitazione, con un sorriso, prendendomi per mano mi porta in quel suo mondo fatto di emozioni a me sconosciuto. Parla della vita, e riesce a dipingerla in tutta la sua vera, gioiosa e tragica umana realtà.

Tante scene sovrapposte come in un quadro, fatto di visioni limpide e sfumate allo stesso tempo, tenera e a volte ironica come può esserlo una Fiorentina purosangue, ci mostra l’anima di donna sensibile e di fotografa attenta, coglie il particolare nell’attimo in cui si rappresenta, senza incertezze, sfarzo o costruzione alcuna, così come è, semplice come lo è un tramonto, dove l’unico bagliore è di un sole che gioca a nascondino tra montagne scure che disegnano nel cielo linee nette e sicure.

“Come è il panorama?”

La bella copertina del libro parla di quel tramonto, nel libro se ne parla, in una purezza senza equivoci, che a guardarlo mette un po’ di brividi, per la sua bellezza, forse solo perché è vero.

Un bel libro, davvero, da leggere.

Il suo sito: Martina Buzio

Potete acquistare il libro nelle migliori librerie on line e non solo.

Evvai!!!

Eccoci, ben arrivato 2016!

Eccoci

E così il nuovo anno è incominciato, senza tanti buoni propositi per il 2016 o recriminazioni per il 2015. Normalmente.

Come scrivevo da un’amica blogger appena conosciuta, in genere mi lascio guidare dal mio Carpe Diem, anche perché sono sicuro che in ogni caso non cambierebbe nulla lo stesso.

Un sorriso sempre, compiaciuto nel vedere quel bicchiere mezzo pieno, ma già lo sapete, non è una novità.

Oggi più di una volta ho sorriso tra me e me; in mattinata ascoltando un signore abbastanza anzianotto – ma non dicono che l’età rende saggi? – urlare inferocito insultandolo pesantemente in un parcheggio contro un altro signore che senza volerlo, io testimone, giurin giuretto, gli stava fregando il posto. Ho sorriso per la stupidità della gente, di come s’infervora per un non nulla, e per quanta poca considerazione ha del suo prossimo. C’è di peggio, mi veniva da dirgli, ma ho l’impressione che non avrebbe capito, preso com’era nel difendere lancia in resta le sue banalissime stupide ragioni mattutine.

Poi ho sorriso vedendo il sorriso accogliente della signorina che prendeva le ordinazioni da Giovanni Rana, anche questa non è una novità e infatti ci torno sempre volentieri proprio per questo, e poi ancora, visto che nel centro commerciale dov’ero andato a mangiare c’era il mondo intero, mentre con il vassoio in mano cercavo un posto per sedermi, un’altra signorina con ancora il boccone in bocca si è alzata pregandomi di prendere il suo posto.

Il suo era un sorriso quasi timido, è persino arrossita nel dirmelo, ma dopo averle detto più volte che aspettavo che finisse, l’ho ricambiato con gratitudine.

Quanto fanno bene queste cose!

Basterebbe poco nella vita per condividere qualcosa con gli altri, e incominciare l’anno nuovo con un sorriso, una gentilezza, fa bene all’anima.

Sì, decisamente!

Ancora Buon Anno e… buon blog ovviamente.

Dimenticavo, domani è l’Epifania e allora voglio farvi leggere una letterina che avevo scritto tanto tempo fa e che, ahimè, è ancora attuale assai assai.

“Cara Befana… 6 gennaio 2009”

Ps per Patrizia: ‘nnagg… Patrizia, ho pubblicato la foto di due volatili di cui non conosco il nome e men che meno la specie, tu, da brava naturalista, sei bravissima a fare le foto agli animali, potrai mai perdonarmi per aver osato tanto? 

ari_’nnagg…!!! 🙂

Potrebbe bastare un fiocco?

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Forse viviamo in un mondo che è pieno di solitudine?

E’ una domanda che mi pongo ormai da un po’, ma alla quale non so dare una risposta, ahimè.

Ieri ho saputo che una persona che conoscevo era morta in modo accidentale e malgrado non l’avessi mai frequentato, pur conoscendo la sua storia, mi è dispiaciuto molto. Separato dalla moglie da circa vent’anni, aveva poi rotto anche con il figlio che, ad un certo punto, non ne aveva più voluto sapere nulla. In tutto questo tempo, ha vissuto senza più rifarsi una vita – un’altra donna, un altro figlio – e tranne i genitori, frequentava pochissima gente. Niente amici dunque.

E malgrado siano passati diversi anni, non ha mai provato a riprendere il rapporto con il figlio e allo stesso modo, anche il figlio non lo ha mai cercato. Non l’ho mai capita questa cosa, non era successo nulla di irreparabile, ma l’orgoglio forse, senz’altro la paura di un rifiuto, aveva messo fine ad un rapporto che magari provandoci, quando ce n’era l’opportunità, si sarebbe potuto ricomporre.

In effetti, era successa la stessa cosa tra lui e il padre, che andato via di casa, aveva rotto con tutta la famiglia, figli compresi. Come è strana la vita!

E’ una storia triste, soprattutto perché la sua morte si è portata con sé un fardello difficilmente risanabile per un figlio che, allo stesso modo, non ha mai avuto il coraggio di affrontare un confronto con il padre, lasciando che il rancore, e quel che è peggio, l’odio e l’indifferenza, calasse inesorabilmente tra di loro.

Una storia come tante a dire il vero, con una costante, l’incomunicabilità, che secondo me è il vero male di questo nostro secolo controverso, con profonde radici sulla mancanza di valori veri, anche i più elementari, i ruoli, il rispetto, la condivisione, e non per ultimo l’amore e l’affetto, lasciando spazio all’indifferenza e al rancore, pur vivendo la vita con sofferenza.

E sì, penso che Lui abbia vissuto nel dolore tutti questi anni, così come il figlio immagino. Ma cos’è che impedisce alle persone di fare un semplicissimo gesto, magari porgere una mano?

Meglio soffrire. Piuttosto la solitudine.

Ma che enorme tristezza è mai questa!

Evvabè, potrebbe bastare un bel fiocco per fare pace con il mondo intero?

*** La scatola.

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Mi allungo sulla sedia e quasi mi sdraio, oggi è di quelle giornate in cui non ho voglia di pensare a nulla e così mi stiracchio, con lo sguardo perso un po’ su quella scatola e un po’ fuori alla finestra.

E’ strano, quando vuoi annullare ogni pensiero i pensieri ti vengono incontro e fanno capolino malgrado tu dica loro di andar via, prepotenti, senza alcun ritegno.

Torno di nuovo a guardare quella scatola e chissà perché sembra diversa, non è solo questione di colore, anche quello, o di materiale, anche quello, vederla rinchiusa in quell’angolo ne amplifica la forma e le dimensioni, come se il suo contenuto volesse a tutti i costi spuntar fuori, e al pensiero mi vien quasi da ridere, perché m’immagino due guance gonfie di vento e lettere disordinate che in un’esplosione di linee rette e curve provano a dar forma a parole mute, ma che hanno l’aspetto di grida che libere da ogni pudore, portano sorrisi, portano lacrime, ricordi ingarbugliati sommersi dalla polvere del tempo, una matassa di fili da sbrogliare, che si percorrere solo se le dita, tra pollice e indice, trovano il ritmo giusto.

No, non ho voglia di pensare a nulla, come in un cartone animato, sento l’aria che si smuove risucchiata dal sordo rumore di un coperchio che si chiude, e un raggio di sole che filtra dai vetri appannati della finestra mi rammenta la giornata che da poco è incominciata, beh, tiriamoci su le maniche che son tante le cose che m’aspettano e nel farlo, sorrido al nuovo giorno, perché oggi sono quel che sono.

L’omologazione e l’arte.

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Capita alle volte di andare in giro soprattutto in vacanza, rendendosi conto che ciò che ci offre questo mondo sempre più globalizzato è tutta una serie di “prodotti”, nel consumo, nella cultura, nei costumi e perfino nel pensiero, che nella loro essenza più propria ha totalmente perso unicità.

Volendo banalizzare, basta fare un giro tra le bancarelle che si trovano nei centri turistici, sempre meno turisti che si accalcano per curiosare e sempre più gingilli tutti uguali tra di loro.

Un prodotto omologato dunque, probabilmente frutto di stranissime ricerche di mercato. Qualcuno pensa ai nostri bisogni per renderli ogni giorno sempre più simili e uguali agli altri. Appunto!

Che meraviglia. E non solo.

Girando per gallerie d’arte questa estate ho avuto la stessa sensazione; quadri, sculture, piccole istallazioni che non comunicavano ahimè nulla di nuovo, anzi, un déjà-vu per certi aspetti sconcertante. Oggetti belli – alcuni – giusto adatti per stare in bella vista in un soggiorno, un elemento d’arredo dunque che con l’arte, intesa come l’espressione di un’emozione pura e unica, non ha nulla a che vedere.

Forse stiamo vivendo un momento storico un po’ confuso, tanto fermento, nell’arte in genere, nel design, nell’architettura, nella musica, complice la comunicazione che grazie alla rete è immediata, ma allo stesso tempo una carenza di idee che proprio nell’omologazione trova tristemente riscontro.

Tanti mezzi espressivi utilizzati per comunicare, video, film, istallazioni, una narrativa dove spesso l’opera stessa non esiste, perché è più importante stupire, ci si affida all’evento piuttosto che ai contenuti, dove alla fine anche l’emozione è un vago ricordo.

Forse sono io che non mi accontento più, vorrei vorrei vorrei, tanta energia dentro di me, ma anche tanta noia per ciò che incontro.

Evvabè, tiriamoci su le maniche, chissa!

Ciao Vito!

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Sì, la vita è proprio strana e lo è ancora di più nel momento in cui diventa prevedibile.

Ne avevo parlato in un post quasi due anni fa il 22 ottobre 2012 e oggi ciò che si temeva si è avverato.

Vito, sì, quel ragazzo nonostante i suoi cinquant’anni allegro e sorridente che spesso mi coccolava facendomi trovare sul tavolo le mie pietanze preferite e che lavorava nella trattoria dove alle volte vado a mangiare se ne è andato, aveva scoperto di avere un tumore al cervello e come sempre accade in questi casi, non c’era più nulla da fare.

Mi spiace, mi spiace tanto, davvero, in effetti lo conoscevo poco, ma in quel piccolissimo spazio che ci ha visti l’uno di fronte all’altro ho scoperto una persona a modo suo speciale, oltre che semplicemente serena con se stesso e con tutto ciò che lo circondava.

Non era famoso e non era neanche una persona particolarmente carismatica, sapeva fare il suo mestiere con quell’umiltà che dovrebbe contraddistingue ogni tipo di lavoro e di professione. Mai tronfio o troppo pedante nel portare avanti le sue ragioni nel caso ce ne fosse stato bisogno, sempre con un sorriso sulle labbra aveva il dono dell’accoglienza, in un certo senso ti faceva sentire al centro dell’attenzione e proprio per questo faceva di tutto per accontentarti.

Scrivevo allora: “Una sana riflessione sull’argomento sarebbe da fare, se non altro per fermarsi, per cercare di riprendere fiato, perché al di là dai vecchi e cari luoghi comuni, le rivalse, le lotte, il predominio, o solo aspettare (…) che qualcun altro soccomba, lasciano il tempo che trovano.”

Tutto questo per dire che basta poco per avere un bel ricordo di una persona e quel poco è racchiuso dentro di noi. Liberiamolo dunque, bisogna soltanto crederci.