E sono sei anni…

Caro Arthur,

O zòn tous zòntos blèpei” dicevano i Greci, il vivo vede i vivi, che corrisponde più o meno al nostro “Chi muore giace e chi vive si dà pace”, ma non è così.

Ci sono vivi che hanno un terzo occhio, defunti che continuano a vivere nei nostri pensieri, appaiono nei nostri sogni, ci sono vivi che non si danno mai pace per un affetto perso. E poi, certo, c’è chi guarda avanti, voglio dire, c’è chi riesce a guardare solo avanti, a ignorare ciò che sta dietro e che fa inevitabilmente e indissolubilmente parte di noi.

Sono qui, non è la serata più adatta a scriverti, nei giorni scorsi la testa pullulava di pensieri, fitti e impetuosi, sempre sul perché della vita e, eventualmente, del suo volare via.

Pensavo a tua sorella, mi ricordo motivi di lite, e poi l’inaspettata riappacificazione. Mi sfuggono i dettagli dell’una e dell’altra, ma ricordo che il distacco sembrava irreversibile, il dialogo impossibile: a un certo punto però un riavvicinamento c’è stato e mi ha sorpreso.

Mi chiedo se solo io sono incapace di perdonare. Mia madre me lo rimproverava, mi diceva sempre secca “Dio perdona, tu no”, ed è vero, non l’ho mai perdonata (né, devo dire, lei questo perdono l’ha mai chiesto).

Sono tre anni che è morta e continuo a cercare di farci pace, senza riuscirci: veramente, per la mia quiete e per la sua, dovrei smettere di provarci, perché ogni ricordo che vado a toccare riapre una ferita. Io cerco i ricordi positivi, cerco i momenti in cui è stata madre, e niente, il torrente di torti subiti, di rospi ingoiati, di carezze – e cibo! – negati mi travolge, e se non ci ho fatto pace neanche dopo la sua morte, credo che non lo farò mai più.

Mi hanno regalato un libro davvero inquietante, uno di quelli ambientati in uno scenario distopico che tanto vanno di moda adesso, “La scuola per le buone madri”.

Questa la trama: in un mondo dove tutto è controllato, misurato, monitorato, a delle madri che hanno commesso piccoli o grandi – o inesistenti – errori nei confronti dei propri figli, i figli vengono tolti e loro mandate in una struttura dove dovranno imparare a essere brave madri. Ogni loro mossa – si esercitano con degli pseudo-bambini – viene registrata, misurata, catalogata, esaminata, giudicata, rettificata, sanzionata.

Non l’ho ancora finito di leggere, ma a quanto ho capito tutte o quasi perderanno la custodia del proprio figlio, penso anche la possibilità di vederlo e di avere un qualsiasi contatto con lui.

Persino un romanzo del genere, di pura fantasia e ambientato altrove, mi risveglia ricordi laceranti: quanto ho desiderato essere tolta ai miei genitori, quanto ho sperato che intervenissero gli assistenti sociali, quanto ho pregato di scoprire di non essere figlia loro, benché io sia fisicamente quasi il clone di mia madre.

Sono più traumatizzata di quello che io stessa ho sempre pensato, ma voglio disperatamente andare avanti e fare pace con questo tozzo di vita che mi rimane.

Non so perché ti scrivo questo, forse perché davanti a una lapide è più facile parlare, affidare i propri pensieri a un silenzio tombale, in quella pace che regna nei camposanti, tra nomi e date che dovrebbero raccontare delle vite, e forse solo nel caso di bambini riescono a farlo.

Stavolta, per l’anniversario della tua scomparsa (nascita in cielo?), ho scelto forse un argomento un po’ strano per comunicare qualcosa e, per la verità, non so neanche il perché, forse perché lassù vi pensiamo più saggi e con una visione globale di quella nostra vita che noi vediamo a pezzettini, come guardando dal finestrino di un treno.

E sono sei anni…un fiore sul letto in cui riposi.